Negli ultimi tempi si è tornato a parlare di Ponte sullo Stretto di Messina e, tra rimbalzi giornalistici e comunicati incrociati fra pro-pontisti e no-pontisti, si rischia i perdere la bussola all’interno di un battage di posizione nel quale sembra sfuggire un dato che a chi scrive appare inequivocabile, in altre parole l’attuale irrealizzabilità tecnica dell’opera. Pur avendo partecipato negli anni a studi di impatto dell’opera, ho creduto fosse una scelta più oculata far parlare qualcuno di gran lunga più autorevole di me. In un interessante colloquio con il Professor Alberto Ziparo, urbanista e docente all’Università di Firenze, col quale condivido una profonda passione per l’approccio territorialista,[1] abbiamo cercato di inquadrare la faccenda del Ponte sullo Stretto all’interno di un ragionamento più ampio che va a toccare il concetto stesso di “sviluppo”, sempre in oscillazione fra crescita esponenziale e tutela del territorio. Queste righe si articolano quindi come un dialogo-intervista, una cosetta che andava di moda nel secolo scorso e, essendo io assolutamente demodé, ben mi ritrovo in questi revival del caro vecchio giornalismo d’inchiesta dei tempi andati. Approcciamo a questo dialogo con una serie di domande che si fanno via via più discorsive e meno rigide, come un percorso a spirale che partendo dal tam tam del Ponte finisce poi con la critica più che al modello di sviluppo al concetto di sviluppo inserito nel modello socio economico imperante a livello globale: quello capitalista.
J.R. – d’ora in poi JR: Alberto, ti pongo una prima domanda a bruciapelo, giusto per cominciare ad inquadrare il problema partendo dal nocciolo della questione: il ponte si fa o non si fa? E se non si fa perché se ne continua a parlare?
Alberto Ziparo – d’ora in poi AZ: Il Ponte è molto comodo per una moltitudine di soggetti, dai politici agli operatori dell’informazione fino ad arrivare agli enti pubblici ed alla dirigenza dello Stato in genere. Soprattutto questi ultimi non hanno idea di quelle che sono le reali problematiche dei territori del Sud e che, soprattutto, non hanno la capacità di affrontarle nella loro complessità. Quindi se sono un politico che ha voglia di creare un po’ di clamore tiro fuori la storia del Ponte, in quanto è comodo e rimbalza mediaticamente quasi da sola, riattivando immediatamente le opposte fazioni dei pro-pontisti e dei no-pontisti. L’estrema comodità della tematica si impone come scorciatoia per rilanciare soluzioni non richieste a problemi oramai quasi incomprensibili alla cosiddetta governance, la quale appare incapace di cogliere la complessità della fase o probabilmente non può coglierla. Un po’ per assoluta incapacità, un po’ per non toccare equilibri latenti che sulle grandi opere specula da decenni senza spesso muovere una sola palata di terra.
Dal punto di vista tecnologico, quindi della sua cantierabilità, il Ponte è qualcosa che con l’attuale tecnologia è praticamente impossibile da realizzare. Nessuno ad oggi si è mai azzardato a firmare un progetto esecutivo: di bozze ne sono state redatte quasi una ventina ma un tecnico che firmasse l’intera opera non si è mai trovato. Sono stati validate alcune parti ma i circa quindici punti critici del progetto non sono mai stati risolti. Un esempio su tutti è costituito dai giunti tecnici, che dovrebbero avere dimensioni di circa 7-8 metri e caratteristiche di risposta alle sollecitazioni uniche: ebbene i giunti più grandi attualmente realizzabili con quelle caratteristiche di risposta alle sollecitazioni non superano il metro e mezzo. Nelle varie pubblicazioni e contro-analisi redatte per sfatare il mito della cantierabilità dell’opera, con altri colleghi rilevavamo la straordinaria e singolare condizione geologica dello Stretto di Messina.[2] Una singolarità geologica che si compone di sollevamenti differenziali fra le due sponde e un allontanamento progressivo della placca siciliana rispetto a quella Calabrese.
JR: La domanda quindi per quanto scontata corre immediata, cui prodest? E a questa ne segue uno sciame. Perché insistere su qualcosa di palesemente irrealizzabile? Se prendiamo per buona la questione della transizione ecologica e la ridefinizione della attività per essere meno impattanti, com’è possibile rispolverare questa assurdità ambientale?
AZ: Il nocciolo è sempre quello dell’incapacità/impotenza della classe governante. Se prendiamo i programmi realizzati altrove, ad esempio il recovery plan tedesco ed olandese, si configurano dei processi di cambiamento di rotta sostanziale nei confronti dell’integrità territoriale e dell’ecosostenibilità. L’Italia, pur avendo una conformazione eco-paesaggistica tale da poter essere una sorta di capofila del rinnovamento e della salvaguardia del valore socio-ambientale del territorio, nei fatti si trincera dietro progetti assolutamente incomprensibili alla luce delle reali necessità dei luoghi e delle macro-aree geografiche. In ciò si evidenzia il duplice fallimento della governance nostrana: da un lato l’assoluta inadeguatezza a concepire soluzioni realmente compatibili con la fase attuale, dall’altra si manifesta la sudditanza a logiche speculative che hanno tenuto banco negli scorsi trent’anni di programmi di sviluppo basati solo sulle grandi opere. Il Ponte è una figurina che ben si presta a catalizzare l’immaginario collettivo del progresso, il quale figurativamente avanza con il passo svelto dei vettori ferroviari ad alta velocità e con il vanto ingegneristico delle grandi opere.
Ai tempi delle proteste contro il ponte (quasi vent’anni fa, NdR), vi era una situazione per la quale erano stati stanziati fondi, vi era un general contractor che aveva vinto l’appalto – Impregilo ora Rebuilt – e la macchina economica e burocratica era de facto in movimento. Vi era lo spauracchio delle penali, sbandierato come attenuante unica, che “costringeva” a realizzare l’opera. In realtà il general contractor ha più volte annunciato l’inizio dei lavori (sono state posate almeno 5-6 prime pietre dell’opera NdR) senza mai aver redatto il progetto esecutivo, intascando però i denari della progettazione. Denari provenienti da Cassa Depositi e Prestiti, cioè non solo soldi pubblici ma liquidità proveniente dai risparmi di milioni di persone.
A determinare la chiusura definitiva della stagione Ponte è intervenuto un provvedimento statale del 2012 nel quale si imponeva alla società appaltante di consegnare il progetto, pena l’annullamento del contratto e delle relative penali. Impregilo si guardò bene dal consegnare alcunché di cantierabile vista la palese irrealizzabilità dell’opera. Per ammissione dei tecnici coinvolti nel progetto (quelli con una coscienza deontologica ovviamente, NdR) e non per pura supposizione degli ambientalisti facinorosi e sempre contrari a tutto, il progetto Ponte sullo Stretto è finito in soffitta. Il lucro sul Ponte si è sempre basato sulla “fiducia” che prima o poi l’opera sarebbe stata realizzata: in quest’ottica tutte le varie imprese del consorzio di realizzazione, le più grosse delle quali sono ovviamente quotate in borsa, continuano a mettere a bilancio gli introiti futuri dell’appalto Ponte e, quindi, tirarlo fuori ogni due per tre serve a rinvigorire la fiducia in quella selva di prodotti finanziari all’interno dei quali si annidano le opzioni sull’opera. Le varie cordate politiche, le quali sono espressione diretta di questi interessi economico-finanziari, agiscono come strilloni per imbonire la suscettibilità degli investitori; non stupisce quindi un Renzi o un Draghi che rimettono in moto il chiacchiericcio sul Ponte.
JR: L’ambito di “movimento” strologa anch’esso sul Ponte ma, se abbiamo in qualche modo decostruito la bufala Ponte già da vent’anni, com’è possibile che pezzi di sinistra extraparlamentare ancora si esprimano come se il Ponte fosse un pericolo materialmente incombente? Perché prestarsi a questa sciarada?
AZ: Bisogna tornare per un momento a quanto dicevamo all’inizio, cioè che la classe politica, nel suo oscillare tra incapacità e impotenza, tira fori la storia del ponte a comando, per opportunità sua o di altri. In questo processo il capolavoro è stato realizzato dal PD che, nell’ultimo governo Conte, per recuperare i renziani ha istituito una commissione di tecnici per stabilire l’utilità dell’opera a prescindere dalla sua realizzabilità; alla caduta del secondo Governo Conte, la commissione è rimasta in piedi ed ha costituito un regalo al “finanziarista” Draghi per porsi come l’uomo della provvidenza in lungo e in largo per tutti quei settori economico-finanziari ghiotti di notizie “ufficiali” sulle quali recuperare la credibilità dei loro investimenti.
In tutto questo teatrino la cosiddetta “politica dal basso” non riesce a fare altro che andare a rimorchio di quanto detto e comunicato dagli enti locali e governativi. Non riesce insomma sostanzialmente a sfuggire alla politica mediatica, giocata per slogan e per suggestioni. Meno si opera “on the road” e più ci si deve legare alle isterie della politica riferita e chiacchierata, in qualche modo si annaspa nella condizione nella quale ci si è rinchiusi nel momento in cui si è liberamente deciso di abbandonare la politica attiva nei territori e si è preferito abbracciare le macro vertenze: non dettiamo più l’agenda ma ci limitiamo a rincorrere le scadenze proposte dalle varie consorterie. Quello che il cosiddetto movimento dovrebbe invece ricordare è cosa significa il Ponte e quale modello di sviluppo esso propone, un modello speculativo che oggi non richiede neanche l’avvio dei lavori per lucrare, basta la promessa per innescare circuiti di speculazione finanziaria da capogiro.
Siamo in un’epoca assai critica nella quale bisogna avere le idee chiare su cosa voglia dire la parola sviluppo e soprattutto chi è il soggetto che lo propone. La fase ci pone davanti la transizione dalla produzione materiale a quella immateriale, quindi alcune opere che apparivano strategiche e inderogabili anche sono 10-15 anni fa oggi mostrano la loro vetustà. In un momento nel quale il valore paesaggistico è perfettamente sovrapponibile ad un asset industriale, appare assai illogico devastare tale valore con sventramenti e trasformazioni irreversibili del territorio. Salvaguardare il valore eco-paesaggistico è l’unico investimento realmente utile e razionale da proporre da qui in avanti.
JR: Ti ringrazio Alberto e spero di poter avere qualche altra interessante chiacchierata da riproporre sul nostro giornale.
AZ: Grazie della disponibilità, non mancheranno occasioni.
J.R.
NOTE
[1] (…) “Il ritorno al territorio come culla e risultato dell’agire umano, esprime e simboleggia la necessità di reintegrare nell’analisi sociale, quindi anche economica, gli effetti delle azioni umane sulla mente umana e sull’ambiente naturale, sempre storicamente e geograficamente determinati.” Dal manifesto della società dei territorialisti. url: http://www.societadeiterritorialisti.it/wp-content/uploads/2013/05/110221_manifesto.societ.territorialista.pdf
[2] Vedi Il Ponte Insostenibile. L’Impatto Ambientale del Manufatto di Attraversamento Stabile dello Stretto di Messina, a cura di Virginio Bettini, Marco Guerzoni, Alberto Ziparo, Firenze, Alinea, 2002.